ELOGIO DELLA SOLITUDINE
- CCPT
- 28 mar
- Tempo di lettura: 7 min
Aggiornamento: 31 mar
Come siamo stati educati a sentirci inutili da soli
Dott.ssa Imma D'Alessandro

Tempo di lettura: 5 minuti
A cosa avete pensato quando avete letto “solitudine”?
Vi immagino trasalire, increduli che si possa elogiare una condizione che a molti porta sofferenza, altri invece tirare un sospiro e pensare “ma magari avessi un po’ di tempo da solo…”, altri ancora potrebbero aver pensato “ma allora non sono strano io!”.
Per il primo gruppo: mi scuso. Quando la solitudine è una condizione non desiderata ma subita, diventa difficile provare a vederne le risorse e ad apprezzare il tempo per Sé (soprattutto se il rapporto con Se non è proprio idilliaco in questo momento). Provo a immaginare che abbiate già fatto dei tentativi per rendere questa condizione più piacevole, ma spero di riuscire a dare dei suggerimenti nuovi per tentare di trovare almeno un po’ di sollievo.
Ci sono decisamente molte più interpretazioni di quante io ne abbia proposte alla condizione della solitudine. Può descrivere l’effettivo isolamento sociale ma anche una condizione di estraneità e non appartenenza al gruppo, al luogo, alla cultura, alle tradizioni, nonostante lo sforzo di connettersi. Può essere il tormento di chi desidera avere un partner e non trova la persona giusta, oppure è in una coppia dove non si sente visti e riconosciuti i suoi bisogni o le sue potenzialità. Potrebbe essere anche quella strana sensazione che si avverte quando, dopo lunghe sessioni di scrolling dei social, alziamo lo sguardo dallo schermo e prendiamo consapevolezza del tempo che è trascorso e di quanto, chiusa l’applicazione, intorno a noi ci sia solo silenzio.
C’è però una solitudine desiderata, agognata, che può essere addirittura goduta. Pensiamo alla condizione dei neo genitori: nei primi anni di vita dei figli, lo spazio di vita dell'adulto si fonde con quello della prole, in particolare se non si ha la possibilità delegare per un’ora o due l’accudimento dei bambini a qualcun altro. In questi casi, anche fare una lunga doccia rilassante, magari con un sottofondo musicale e la porta del bagno chiusa, diventa un sogno ad occhi aperti.
Per qualcun altro la solitudine è un bisogno di decompressione dopo giornate di interazione con l’Altro o alla fine di una settimana piena. Non c’è bisogno di vivere in una condizione di intenso accudimento o di lavorare in un centro commerciale per poter desiderare una giornata in silenzio, con se stessi.
Capita spesso che nel mio studio qualcuno si dichiari molto preoccupato del modo in cui si sentirà in occasione di un periodo o di una giornata in cui sarà solo, in assenza delle attività che solitamente affollano la sua giornata o delle persone che riempiono il tempo vuoto.
Siamo molto abituati ad avere tante cose da fare, suggerite o imposte dall’esterno, che non ci mettono mai nella condizione di domandarci “e adesso che faccio?”. In caso di attesa, di una coda da rispettare o di una mezz’ora da riempire, non dobbiamo nemmeno chiedercelo: basta prendere il nostro telefono e il contenuto che ci intratterrà è lì già pronto, creato da qualcuno che di lavoro pensa a come trattenere la nostra attenzione raccontandoci o mostrandoci qualcosa.
Sicuramente la sensazione sgradevole associata alla solitudine ha un senso evolutivo: per i nostri antenati preistorici l’isolamento era un pericolo di vita. Essere soli li rendeva più vulnerabili ai pericoli dell’ambiente ma anche alla possibilità di farsi male, non avere nessuno che si curasse di loro, di portargli del cibo, di proteggerlo dagli animali e morire per questo. Quella percezione del pericolo ha portato i nostri antenati a creare i gruppi di appartenenza, gli albori della società moderna.
Ad oggi, però, grazie agli sviluppi della rete di servizi a cui possiamo accedere (l’intervento di un'ambulanza se stiamo male o la possibilità di farsi recapitare il cibo a casa con pochi click sullo schermo) il significato della solitudine si è decisamente complessificato. Cercare la presenza - fisica oppure online - di altri esseri viventi non risponde più in modo puntuale a ciò di cui sentiamo il bisogno quando ci sentiamo soli. Infatti, quel che ha complicato la risposta allo stimolo è che la domanda di fondo non è sempre la stessa: non possiamo dare per scontato che attenga alla sicurezza fisica oppure alla possibilità di chiedere aiuto. Ci si sente soli anche nel desiderio di condividere con qualcuno i propri pensieri, le opinioni su qualcosa che si è visto o si è letto (pensiamo a quanti blog e spazi personali sono nati da quando internet si è diffuso nelle case di tutti, oppure a quanto ci possa entusiasmare la formula del Q&A che alcuni content creator propongono come un appuntamento fisso settimanale o quando loro stessi hanno del tempo vuoto) oppure nel fare un’esperienza insieme a qualcuno con cui ci sentiamo sintonizzati emotivamente.
Pensare alla solitudine come un tempo prezioso da investire su se stessi sembra, con queste premesse, poco possibile.
Ma proviamo a capovolgere il nostro punto di vista.
Quante volte ci siamo sentiti infastiditi, annoiati, irritati dopo aver usato i social per riempire troppo tempo a disposizione?
Quante volte ci siamo adattati alla proposta di un gruppo di amici perché non avevamo una valida alternativa da parte di altre persone, per poi trascorrere la serata in un posto che non ci piace, con delle persone con cui non abbiamo sentito alcun legame e invece di un miglioramento dell’umore abbiamo sentito insoddisfazione e noia una volta tornati a casa?
A chi non è successo di lamentarsi perchè non ha più tempo per i propri interessi, ma se non ha l’agenda piena anche nel weekend va in panico?
A volte, la solitudine può essere molto più piacevole del tempo “obbligato” (dalla paura del vuoto, dalle credenze sulla buona socialità, dal senso del dovere di dover accettare ogni invito per la paura di sciupare i propri rapporti) con l’Altro. Provate a stilare una lista di tutte le cose che continuamente vi ripetete che vorreste fare, ma su cui non avete mai tempo da investire.
Comincio io:
Finire “4 3 2 1” di Paul Auster (ve lo consiglio!)
Guardare i film e le serie tv messe nella lista dei canali streaming almeno 6 mesi fa
Andare al cinema a guardare il film di turno che piace solo a me o che dura troppo e nessuno vuol venire con me a vederlo (mi dispiace, “The brutalist”, non ho trovato tre ore e mezza per te, ma spero di aggiungerti nella mia lunga lista streaming a breve)
Montare finalmente quelle mensole e smettere di accumulare quadri e libri in pile sul pavimento e bearmi del risultato
Provare a cucinare il filetto alla Wellington
Andare in quel negozietto che ha cose tanto graziose e guardare ogni pezzo con calma (il cui acquisto è conseguente al montaggio delle mensole)
Direi che posso fermarmi, ma sappiate che lo faccio solo per questioni di spazio.
Quanto è lunga la vostra lista?
Se avete tanti punti, provare a immaginarvi come vi sentirete quando li metterete effettivamente in pratica. Vi sembra vuoto, paura, ansia?
E se invece di aspettare che nessuno vi inviti a uscire provaste a programmare voi un appuntamento con voi stessi e i vostri interessi e desideri?
“Si, ma poi vado al cinema e non posso confrontarmi con nessuno dei miei amici sul film…”
oppure “e una volta che ho preparato il filetto a chi lo faccio assaggiare?” potreste pensare.
Beh, intanto non dovete per forza confrontarvi sulle cose che fate con gli amici, ma potete anche raccontare un’esperienza che avete vissuto solo voi, incuriosendoli ("DO IT FOR THE PLOT” ho letto da qualche parte, un po’ di tempo fa). E se il filetto vi vien bene non è detto che non possiate organizzare una cena con qualcuno per rifarlo e perfezionare la ricetta, ma anche godere da soli di una preparazione così lunga e complessa in un atteggiamento mindful (e se non avete amici perché vi siete trasferiti in un posto nuovo, magari al posto del filetto provate a fare qualche dolcetto da offrire a colleghi di ufficio o di corso, che magari cominciamo a fare due chiacchiere con qualcuno e rompere il ghiaccio).
E se la vostra lista è molto corta?
Potrebbe accadere che siamo stati da sempre abituati a non inventarci nulla, ma ad eseguire delle cose da fare, indicate dall’esterno. Se non sappiamo da dove cominciare, possiamo innanzitutto farci delle domande su quanto siamo stati invogliati ad esplorare, fin da bambini, e su quanto ci è stato permesso annoiarci e, quindi, dover mettere in moto la creatività per sfuggire alla noia. Se non siamo abituati alla creatività, possiamo tentare con l’esplorazione, provando a farci stimolare dall'esterno ma attuando una scelta reale, focalizzandosi sul piacere che quella attività provoca a noi come individui.Faccio degli esempi.
Non so cosa fare questa sera, ma non ho voglia di stare a casa perchè mi sento energica o di aver bisogno di cambiare aria.
Provo a vedere, attraverso siti internet (ogni città ha il suo “TorinoToday”, "Guida Torino", etc), oppure sulla sezione “eventi” di Facebook, cosa l’ambiente esterno mi offre per intrattenermi anche in assenza di accompagnatore. C’è un film al cinema che potrei andare a vedere? C’è uno spettacolo di stand up comedy o teatrale che potrei avere piacere di guardare? C’è un corso (anche ad appuntamento singolo) di ceramica, di cucina, di disegno, di fotografia, di pittura, di legatoria, di qualsiasi sport a cui posso iscrivermi? Ci sono degli eventi a cui posso partecipare in cui è previsto che possa andare da solo (Psicologia Torino ne propone mensilmente: eventi in cui le persone vengono da sole e si confrontano su un tema con gli altri, creando un gruppo temporaneo. Non è detto che bisogna parlare per forza.)? Mi piacerebbe prendermi un impegno più strutturato e investire il mio tempo libero nel volontariato? Se andassi in libreria e mi prendessi tutto il tempo che mi serve per selezionare un libro che sembra incuriosirmi?
E se ancora questo ci sembra troppo vago, proviamo a chiederci “cosa ho già fatto che mi è davvero piaciuto?”. Se ricordo di aver molto riso guardando un film con gli amici, posso provare a cercare film simili e vedere se - al di là delle grasse risate condivise - possa rallegrarmi ugualmente e scoprire un genere che mi provoca piacere. Quale attività mi fa stare sempre bene quando la faccio con gli altri? Potrei provare a vedere se in assenza di compagnia, è un’attività che posso rendere mia al di là della presenza dell’altro.
Tutte queste riflessioni e suggerimenti, ovviamente, valgono in assenza di una condizione di sofferenza psicologica che rende dipendenti dalla presenza di un Altro per percepirsi, definirsi, organizzare l’idea di Sé. Quest’ultima è una condizione da affrontare, invece, nella stanza di psicoterapia, dove strutturare prima degli strumenti e solo successivamente tentare l’esplorazione autonoma dell’ambiente e ripensarsi come persona capace di fidarsi di Sé.
Per tutti gli altri, buona solitudine.
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